
QUANDO L’EMOJI DIVENTA GIUDIZIO
Negli ultimi mesi mi capita sempre più spesso di vedere nei quaderni dei bambini delle faccine: sorridenti quando tutto va bene, tristi quando c’è un errore. Non sono voti, sono emoji – ma hanno un peso enorme.
Molti docenti credono di aver tolto la pressione del voto: “Niente numeri, niente giudizio,” pensano.
E invece — forse senza accorgersene — hanno fatto qualcosa di molto più delicato:
hanno trasferito la valutazione sul piano emotivo.
Un voto (6, 7, 8) dice semplicemente:
“Questa è la performance.”
Una faccina triste dice invece:
“Il tuo errore mi rende triste, mi delude.”
Non è più un giudizio sul compito, è un giudizio sulla relazione.
Non è: “Hai sbagliato un esercizio.”
È: “Mi rendi felice quando fai bene, mi rendi triste quando sbagli.”
Il bambino cosa impara?
che l’errore non è neutro
che l’errore influisce sullo stato emotivo dell’adulto
che la sua prestazione scolastica può deludere o rallegrare l’adulto
che l’approvazione è condizionata dal risultato
E questo, pedagogicamente, è ben peggio di un voto.
Perché un voto puoi imparare a riconoscerlo come dato esterno.
Una faccina triste entra sotto pelle.
Ti dice che la tua performance scolastica si intreccia con l’umore di chi ti educa.
I bambini dovrebbero invece apprendere che:
l’errore non è un fallimento personale
non offende nessuno
non rende infelice l’adulto
fa parte del processo di crescita
La valutazione dovrebbe essere verbale, contestualizzata, motivante:
“Qui hai sbagliato, ma guarda che progresso.”
“Questa parte la rivediamo insieme.”
“Hai capito bene il procedimento, ma hai saltato un passaggio.”
Questo è educare.
Questo è accompagnare.
Questo è tutelare la relazione.
Ai bambini va insegnato che l’errore è un passaggio di apprendimento, non una colpa affettiva.
Che non devono proteggere le emozioni dell’adulto.
Che la relazione non è in pericolo quando sbagliano.
E soprattutto:
che il loro valore non dipende da una faccina.


